Un mondo dalle molte sfaccettature
E’ predominante in questo approccio la creazione di un mondo visivo astratto, caotico, pieno di elementi sensoriali, emotivi e percettivi, che provengono da immagini, testi, melodie, parole, ricordi personali di chi ascolta o discorsi storici del nostro mondo.
Ogni canzone che accompagna il lavoro, non è una “hit” o prodotto musicale in senso stretto come siamo abituati a sentire. Ogni pezzo dipinge un piccolo mondo, scatta una foto a delle emozioni – una foto che non è statica ma evolve e viene destrutturata nel corso della canzone stessa. Le parole usate non completano il significato e senso del pezzo, non lo esauriscono.
Per capire di cosa si sta parlando bisogna associare alla musica anche le immagini che il pezzo ci trasmette mentalmente, come se la melodia, il modo di cantare, i suoni usati, così come gli effetti in sottofondo, fossero un “testo” nascosto da interpretare diversamente – per capire è necessario lasciar “parlare” (o cantare) tutti questi elementi mediali insieme, guidati magari dalle immagini nel booklet relative ad una
data canzone, o il modo in cui i testi sono scritti e disposti… spesso illeggibili è vero, ma lasciano trapelare il messaggio e significato quanto basta da permetterci di immaginare e dipingere da soli il resto.
Il passo successivo nella nostra analisi è l’intero prodotto: essendo i pezzi legati tra loro da un filo conduttore non lineare, viene tessuto dalla band un vero e proprio viaggio, un viaggio all’interno della coscienza umana, o delle macerie fumanti di un mondo, un ideale, una causa. Un percorso (affrontabile in poco più di 40 minuti, come vuole la tradizione “minimalista” dei Linkin Park) che può avere moltissime sfaccettature, parlando di qualcosa di molto intimo e personale, poi allargando il campo ed accostandolo ad eventi, emozioni e movimenti che arrivano dal mondo intero, dalla storia, le grandi guerre o eventi che hanno dilaniato il nostro mondo o semplicemente da piccoli eventi quotidiani di ognuno di noi.
Potrei parlare a questo punto per pagine di ogni singolo pezzo, cercando di spiegarvi il significato che ha per me e le immagini che vi associo, ma sarebbe oltre che molto confusionario, del tutto noioso e poco onesto: questo lavoro è un concept album non canonico, che di fatto non segue una storia, una trama vera e propria – non ci
sono personaggi, eventi, dialoghi, scene. E’ come se ogni canzone fosse un racconto a se, collegata alle altre però da una serie di temi ricorrenti, che si richiamano a vicenda e che scorrono avanti e indietro, avvicinandosi passo dopo passo al centro di tutta l’opera o del “viaggio” se così vogliamo ed esplodendo quindi fragorosamente.
Spesso si ha anche l’impressione che alcuni pezzi siano soltanto degli “interludi” – e parlo in questo caso dei pezzi cantati – come se il loro scopo non sia evolvere internamente ma fornire una parte di evoluzione per la traccia successiva o forse per tutto l’album: basti pensare a Burning in The Skies che non ha una evoluzione concreta, ma scorre tutta così, liscia, quasi come se fosse una intera strofa per il pezzo successivo (e potrei fare un commento simile per Robot Boy che in realtà ha un crescendo maggiore ed ha una notevole imponenza “visiva” nell’album).
Non cercate di immaginare una trama quindi: c’è un filo conduttore, ma il tutto è costruito per avere tantissime sfaccettature, quasi cambiando ad ogni ascolto, con aggiunte, rimozioni e nuovi colori.
Credo che una delle più grandi potenzialità di questo lavoro sia riuscire proprio ad essere allo stesso tempo personale e globale, ma in un modo che ognuno di noi dipinge e crea da se, visivamente.
Chi di noi non si è mai trovato sull’orlo dell’abisso ? Consapevole di una fine inesorabile, costretti a dover affrontare una perdita, anche solo di una parte di noi. Una volta messi davanti a questa “fine”, cosa abbiamo pensato ? In quell’istante dilatato all’infinito e lentissimo, che ci siamo detti, che tipo di discorsi mentali ha affrontato il nostro subconscio o che viaggio è stato percorso da noi stessi ?
E’ questo il tipo di ambiente in cui arriva la band, che con A Thousand Suns prova a sussurrare, cullare, dipingere un mondo di favole distorte, visionarie, che ci parlano di morte, orgoglio, autocommiserazione per aver causato qualcosa di cui siamo pentiti eppure forse ancora ne siamo fieri – autodistruzione, voglia di lasciarsi andare, ma anche di affrontare una nuova vita, di voltare pagina.
Voglia di gridare quasi fino a non vederci più, di andare all’inferno e ribellarsi contro chi ci opprime, per poi trovarsi soli e lasciare andare tutto il dolore, finalmente pronti ad affrontare una fine che noi stessi abbiamo causato, arrivando fino all’eden interiore … nudi, spogliati di ogni “surplus” o aggiunta inutile, di ogni falso mito della vita terrena, pronti a correre per noi stessi e stringere quello che ci resta tra le braccia, consapevoli che non siamo soli, perché un bene superiore riesce sempre a farci ritrovare la strada.