Un luogo allucinante e poco confortevole
La band si è ovviamente guardata bene dal perseguire sulla strada tracciata dal loro ultimo lavoro, ed ha deciso quindi di dare una bella sterzata fuori strada, rincorrendo la “fantomatica” scorciatoia – quella che nei film horror di serie B è spesso l’inizio di una serie di eventi sfortunati.
La strada non segnalata, che dovrebbe farci “arrivare prima” ma in realtà ci fa perdere in un luogo sconosciuto, dove la suggestione ci porta a vedere cose che non esistono, o dove il buio è talmente nero che possiamo vedere solo dentro noi stessi.
E’ proprio su questa misterioso ed imprevedibile percorso che la band riesce a ricostruirsi e ritrovarsi – così come succede all’ascoltatore attento del nuovo lavoro – dando almeno (creativamente) il meglio di se.
Sperimentare e creare musica in un ambiente musicale già ampiamente definito e battuto da altri prima è stata una sconfitta per una band le cui armi sono sempre state distanti milioni di anni luce dalla nuova musica che in qualche modo si cerca di imitare. Per questo motivo la precedente incarnazione dei Linkin Park era partita con un “vizio produttivo” scelto e voluto “per onore al cambiamento”.
Quindi, piuttosto che continuare ad imitare qualcuno, perché non addentrarsi in un luogo “musicale” dove nessuno era (idealmente) mai stato prima ? La band cerca di fare proprio questo: dipingere un ambiente visionario, onirico, a metà tra musica, sogno, storia, versi e suoni. Non esiste un genere che possa realmente catalogare questo A Thousand Suns, eppure se ne potrebbero tirare giù tanti e prenderci in ogni caso: elettronica, dance, rock, hip-hop, progressive sono i primi che saltano alla mente (ed all’orecchio).
Ma ai Linkin Park non serve un’etichetta, una definizione – cercano di creare un concetto musicale dove infondere nuovamente la loro semplicità, la mescolanza di generi, i testi diretti e personali e dove le loro capacità artistiche più creative che “tecniche” (strumentalmente parlando) vengano valorizzate. Una tipologia di musica dove è il lavoro di produzione ed elaborazione in studio a farla da padrone e dove sono la struttura globale e la coesione minuziosa di ogni suono ed elemento musicale, visivo ed emotivo ad essere realmente premiati.
Le intenzioni sono sempre le stesse degli esordi, le stesse di quella tanto riuscita “Teoria Ibrida” anche se il metodo (e gli strumenti) di realizzazione risultano diametralmente opposti: creare qualcosa di nuovo, nato dalla fusione di stili, gusti, idee creative di tutti i membri, per proporre qualcosa di nuovo e fresco in cui le loro capacità “distintive” possono essere anche quelle “vincenti”.
D’altronde, se prima erano le chitarre distorte e le grida ruggenti a colpire e STUPIRE, adesso un elaborato tappeto di tastiere e strumenti sintetizzati accostati a vocalizzi più morbidi ma di maggiore difficoltà canora riesce a bassa voce ad entrare nell’ascoltatore. Si accantona una musica concepita per “colpire” ed avere un look “appariscente” e si cerca di creare qualcosa che magari a prima vista lascia un po’ spiazzati (soprattutto se ci si aspetta altro) ma che se hai tempo di conoscere ed approfondire riesce ad essere molto più appagante.
Di fatto è come se la band, da sempre abituata ad urlare ai loro fans, avesse dopo 10 anni di carriera iniziato a parlargli a bassa voce, cercando di raccontargli, sussurrando, qualcosa esattamente come avrebbero fatto un tempo, ma in modo del tutto diverso (ogni riferimento alla pubblicità del metallaro che dopo un concerto molto Heavy ascolta musica classica è volutamente casuale).
In realtà “sussurrare” non è il termine adatto quando abbiamo più che mai modo di ascoltare le doti del – mai troppo lodato – Chester Bennington, che appunto finalmente ci mostra estensioni vocali molto più variegate invece di dedicarsi solo al suo – inconfondibile – scream (che gli riusciva e riesce molto bene, indubbiamente) che almeno in un episodio dell’album torna a brillare (la stranissima Blackout, che punta però su una costruzione degli scream nettamente diversa del passato).
Dopotutto, anche se la composizione e struttura sono molto complesse ed elaborate, ricche di dettagli, livelli, effetti, corposità e spessore, la strumentazione resta molto semplice, a volte quasi assente – si punta come dicevo sulla creatività e su come il tutto si muove insieme, come nuove sonorità e melodie riescono a stupire nel loro essere non canoniche o non essere qualcosa che ascolteremmo ogni giorno.
Motivo per cui l’ascoltatore meno attento e che conosca meno il modo di lavorare della band (ampiamente documentato in video e dvd del Making of o da interviste spesso ripetitive) potrebbe bollare questo lavoro esclusivamente come un prodotto di Mike Shinoda, produttore in poppa (con Rubin a fargli da “supervisore”), cantante quasi alla pari di Bennington, polistrumentista e genio della coesione stilistica ed umana a frutto della band stessa.
In realtà, appunto, si parla di qualcosa venuto fuori da tutti e 6, suonato, cantato ed elaborato da tutti, stilisticamente, come suoni e concept ed in cui anche il minimo suono campionato è stato riprodotto in studio da loro tramite strumenti più o meno canonici e successivamente riversato in un elaboratore, effettato, smontato, rigirato e quindi inserito in qualche forma all’interno dell’album.
E la band ha sempre lavorato così, dopotutto, anche se sembra un modo di lavorare dannatamente adatto all’album di cui stiamo parlando, per loro è stato naturale farlo perché hanno sempre prodotto musica in questo modo – grande elaborazione e “produzione” in studio, per poi proporre in live degli arrangiamenti totalmente “suonati” e coesi, che assumono quindi quasi una nuova vita ed estetica.