Se c’eravate anche voi durante la fine degli anni ‘90, allora i Linkin Park potrebbero essere stati la colonna sonora della vostra vita.
Assieme ai suoi compagni di band, il rapper/cantante/produttore Mike Shinoda potrebbe avervi aiutato ad oltrepassare qualcosa. I Linkin Park hanno aiutato un sacco di gente ad affrontare diversi generi di cose. Ma essendosi già fatto conoscere in tutto il mondo, Shinoda adesso è nella posizione privilegiata di far conoscere sé stesso – per conto suo. Da solo.
Dopo 2 decenni di musica con i Linkin Park, la morte del compagno Chester Bennington lo scorso luglio ha reso incerto quale sarebbe stato il destino della band. Ma dopo una manciata di mesi di silenzio, il gruppo riappare ad ottobre di fronte a 17.000 fans, con uno show di circa 3 ore all’Hollywood Bowl. Il set ha intrattenuto un pubblico globale. La band era accompagnata da un quartetto d’archi. Shinoda ha cantato una nuova canzone, “Looking for an Answer,” scritta 8 giorni dopo la dipartita di Bennington. E’ stata una ricomparsa d’inferno, con un occhio al passato e un altro al futuro – e poi, silenzio stampa. Nessuno sapeva dove la band sarebbe andata a finire. E la domanda è ancora in ballo.
Ma non avevamo modo di sapere, a quel tempo, che Shinoda avrebbe dato seguito a quella performance con una manciata di singoli. E quei singoli avrebbero poi portato a ciò che sarebbe diventato il suo primo album sotto il suo nome—Post Traumatic. Dopo e durante la tragedia, Shinoda aveva fatto ciò che ha sempre fatto durante la sua intera carriera: si è reinventato, ha perseverato. Perché la vita va avanti. Perché deve andare avanti. E Shinoda è al culmine di ciò che, nonostante decenni nell’industria musicale, sarà un nuovissimo capitolo per lui.
GQ: Quindi come stai? Come sei stato?
Mike: Sto bene. Voglio dire, sai, sto provando a dire “Sto bene, oggi“, capito? E mi sento come se, in un certo senso, la buona notizia sia che trascorro più belle giornate che giornate storte.
GQ: A che punto ti sei reso conto che volevi fare un album solista?
Mike: Sono sempre al lavoro. Quindi se si tratta di un lungo tragitto in auto, una nottata fuori in hotel, se sto volando chissà dove, sono sempre al computer. Scrivo sempre testi, beats, creando basi per le canzoni. E non finirà. Tipo, potrei semplicemente passeggiare in giro, avere un’idea, e cantare qualcosa sul mio telefono. Potrebbe essere un beat, o una melodia, o strofe. Qualsiasi cosa. E’ normale per me—è quotidianità. E non è stato diverso negli ultimi 9, 10 mesi in termini di processo e di frequenza di scrittura.
Ma dal punto di vista dei contenuti e cose così, è stato molto differente. E “il momento” è stato all’incirca intorno ad agosto o settembre. Stavo ascoltando qualcosa della roba che stavo facendo e pensavo, “Oddio, mi sa che questo è un album solista”.
Questo un po’ mi spaventava. A quel tempo, non era nemmeno ciò che volevo fare. Si riconduceva al fatto che il lutto e il percorso di uscita dal lutto sono cose personali. Questo album era inevitabilmente destinato ad essere un viaggio personale e autobiografico. Per me, l’unico modo di esporre questo processo era un disco da solista. Ho semplicemente pensato che fosse il modo più consono. Anche rispetto al percorso di uscita—è disposto in ordine semi-cronologico. Le tracce iniziali erano state scritte e registrate all’inizio per l’appunto, mentre le canzoni successive erano state registrate più tardi, e lo ritroverete anche concettualmente, l’album inizia in un luogo oscuro perché viene fuori da lì, andando verso un punto un pochino più aperto, ampio e luminoso.
GQ: Il disco assomiglia ad un viaggio. Complessivamente, è come un album sulla capacità di ripresa? Costantemente in movimento? Mai davvero sul punto di riuscirci, ma neanche senza sentirsi fermo.
Mike: Sì. Trascorri dei giorni in cui hai stati d’animo diversificati, quindi anche le canzoni hanno mood differenti. Uno dei miei amici ha scherzato sul fatto che non appena mi ha sentito entrare in “modalità battaglia-rap“, sapeva che mi sarei sentito bene.
Perché è ciò con cui sono cresciuto. Sono cresciuto facendo questo. Ed è una cosa che mi diverte davvero fare. Anzi, una volta dovevo focalizzare l’energia sul non farlo, perché sarei immediatamente andato nel luogo in cui scrivevo le canzoni. Ripensandoci posso dire, “La canzone, meno la prima strofa, si tratta di qualcos’altro ma con quella prima strofa diventa una battaglia rap.” (ride)
Finisce per essere inappropriato o solo random. Quindi sì, esser capace di arrivarci prima della fine dell’album è di certo una bella sensazione.
GQ: C’erano dei temi che cercavi di evitare quando stavi realizzando il disco? O hai deciso di tenere tutto ciò che veniva fuori e perfezionare tutto dopo?
Mike: Ho voluto non evitare nessun argomento. La mia filosofia riguardo l’album era che qualunque cosa io sentissi ogni giorno, era appropriata. Era vera. Semplicemente fare una canzone riguardo qualcosa a cui stai pensando o che stai provando. Successivamente, se non era qualcosa che volevo pubblicare, allora non la inserivo nell’album. E questo ha lasciato spazio a molte delle cose che sentite nel disco, in riferimento alle faccende più strettamente personali.
Ad esempio, piccole prese di coscienza quotidiane nelle conversazioni avute con altri amici. O una consapevolezza su come le cose che sono accadute – e le cose che sto facendo – influenzeranno i miei lavori a vita. Sono tanti capitoli di un libro più grande. Quindi non voglio prenderla alla leggera, e non voglio nemmeno trattenermi.
Aver paura di fare le cose è una trappola facile in cui cadere, perché l’ansia e la paura dell’incertezza giocano un ruolo fondamentale quando sei passato attraverso qualcosa di traumatico.
GQ: L’album è davvero naturale. Tipo come quando, a metà disco, parli di essere stato al compleanno di tuo figlio di 6 anni e capitano delle cose che mandano a puttane l’atmosfera?
Mike: Alla fin fine, non sentivo il bisogno di tagliar fuori nulla. Le uniche cose che ho lasciato fuori dal disco erano cose che sentivo essere superflue. C’erano dei pezzi che riguardavano più o meno la stessa cosa, ho solo scelto quella che funzionava meglio. Ce n’era una—fin da subito, molto all’inizio—penso fosse solo un paio di settimane dopo che Chester se ne andasse, che ho scritto, chiamata “Looking For an Answer.” E l’abbiamo suonata più tardi ad ottobre durante lo show tributo che abbiamo tenuto all’Hollywood Bowl per lui. Dopo averla suonata, nelle settimane seguenti, ho cercato di immortalarla in una buona versione in studio, ma non è mai venuta bene.
Quello è stato uno di quei momenti sfuggenti che forse, ad un certo punto, rivedremo.
GQ: Pubblicando questo album come Mike Shinoda, un artista solista, come facevi a sapere quando una canzone veniva fuori? Non solo i testi ma tutti gli elementi—senza poterli condividere con altri membri della band o altri scrittori? Il processo ti è parso significativamente diverso?
Mike: Il processo è stato molto simile a quello che ho sempre fatto con la band. Il mio metodo è molto aperto. E’ molto non-lineare, in un certo senso. Perché la canzone può partire da una registrazione vocale stramba sul mio cellulare o può partire da un beat sul mio computer, o dal piano o dalla produzione. Mi domando soltanto, “Di che cosa ha bisogno?” e seguo la mia ispirazione così come viene. Alle volte questo significa colpi di scena e sperimentazioni con qualcosa che, alla fine, non funziona. Altre volte incappi in qualcosa che non ti aspettavi e ti piace, e allora cambi l’intera canzone soltanto per poter includere quella cosa. Io lo faccio tutte le volte che sto scrivendo una canzone, indipendentemente dall’album in cui deve finire o a quale gruppo viene associata.
La vera differenza, penso per me, è stata che, aver attraversato qualcosa di così grande e devastante, mi faceva sentire fuori controllo. Come accade a chiunque in queste situazioni. Ti senti come se le fondamenta ti fossero state tolte da sotto i piedi. Vuoi avere cose su cui puoi contare. Cose che sono prevedibili e sotto il tuo controllo. Far musica per me è questo e anche quando ho deciso di pubblicare l’album sotto il mio nome, sapevo di esserne l’unico creatore. E questo è stato in larga misura tranquillizzante. Se sto cercando modi di render le cose più semplici e un pochino più prevedibili, per certi versi, allora se sono l’unico a prendere le decisioni ci riesco abbastanza bene. E’ davvero una bella sensazione sapere che posso farlo in questo modo.
E per essere super chiaro, amo i ragazzi (dei Linkin Park). Abbiamo una relazione fantastica sia d’amicizia che come compagni di band, e così come qualsiasi altro gruppo di amici o fratelli, non vai sempre d’accordo. Quindi qualche volta quando stai scrivendo una canzone, o decidendo un tour o un’altra serie di cose, io posso sentirmi in un certo modo e qualcun altro può sentirsi in un altro, e dobbiamo trovare un compromesso. Finché non trovi quel compromesso le cose restano un po’ in sospeso tendenzialmente. E questo può durare 5 minuti o mesi. Chi lo sa? Quindi, farlo da solo, da un punto di vista pratico, sembrava fosse sano per me.
GQ: Assolutamente. Cosa stavi ascoltando nel periodo in cui l’album prendeva forma?
Mike: (ride) Gran bella domanda perché non ne ho idea. Ascolto molte cose e qualche volta le cose che sto ascoltando non influenzeranno realmente e pesantemente un album. Direi che le cose che hanno davvero sorpreso la gente sono state le influenze anni ‘80 e new-wave. Cose come Tears for Fears, Phil Collins e i Genesis e un po’ di Talking Heads e Depeche Mode. Ho sempre amato queste bands. E queste cose sono state sempre d’ispirazione per me. Non penso che molte delle tastiere di Hybrid Theory sarebbero esistite se non fosse stato per i Depeche Mode.
Ma, sai, inizi a mischiare questo con rap e cantato e qualche beat moderno e qualche strumento live ed ecco che hai una nuova specie animale.
GQ: Hai già suonato live qualcuna delle nuove canzoni?
Mike: Sì, ho appena fatto il mio primo show. Ho suonato in un doppio incontro a Los Angeles e uno era uno show da headliner al City Hall, per il Pan-Asian Festival, perché ci sono delle comunità asiatiche qui a LA.
GQ: Per il mese dell’eredità pacifica asiatica americana?
Mike: Sì. Ero stra contento di farne parte. Ed è il modo perfetto per dare il via a tutta questa cosa. Ho scritto una canzone chiamata “Kenji”, che parla della prigionia dei giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. La mia famiglia fu reclusa e non ho mai avuto occasione di suonare questo pezzo nella sua versione per intero prima d’ora. Quindi ho dovuto suonarla ed è stato davvero speciale. Mi era stato chiesto da una radio – qualche settimana prima dello show – di suonarla anche al loro show. Perciò è andata che ho potuto suonare un set per loro. Siamo finiti ad organizzare un palco in mezzo alla folla. E al posto di star lontano dal pubblico, mi son ritrovato nel bel mezzo della gente.
Quindi abbiamo fatto un set a metà pomeriggio in mezzo alla folla e dopo siamo andati al City Hall. Sono stati 2 show completamente differenti e un modo davvero carino per dare il via a tutto quanto.
GQ: Pensi che la setlist cambierà quando andrai in tour e suonerai il disco? Alcuni dei toni lungo tutto l’album variano in maniera così estrema che mi sto chiedendo come farai a metterli tutti insieme nei live?
Mike: Mi aspetto di essere capace di modificare un pochino la setlist. La prima versione è una sorta di percorso e la prima volta che l’ho vista scritta su un foglio ho pensato “è troppo pesante?” cioè, in termini di emozioni. Sarebbe chiedere troppo ad un gruppo di fans di divertirsi? (ride)
Ho soltanto deciso di rischiarmela. E mi sento come, nel suo momento migliore, sia quasi come un’esperienza spirituale. Stiamo parlando di vita reale e davvero, qualche volta, di roba pesante. E stiamo rendendo omaggio al nostro amico che è passato a miglior vita. E nel caso di “Kenji”, stiamo raccontando storie sulla mia famiglia e di ciò che questo significa in un quadro più ampio. Tutti temi concreti.
GQ: Pensi che continuerai a pubblicare album da solo? Oppure altri lavori con i Linkin Park? O con altri gruppi, con altri artisti?
Mike: Beh, dunque.. È vero che gli aborigeni in Australia vanno in walkabout? Lo fanno davvero? [i walkabout si riferiscono al lungo viaggio rituale che gli australiani aborigeni saltuariamente intraprendono attraversando a piedi le distese del bush australiano. Il termine fu coniato dai proprietari terrieri bianchi australiani per riferirsi agli schiavi (o ai lavoratori) aborigeni che sparivano dalle loro proprietà, spesso per settimane, e dei quali si diceva gone walkabout (“andato in walkabout”). – ndr]
GQ: Non posso dirtelo.
Mike: L’idea e il concetto che amo dei walkabout è che sono un rito di passaggio per lasciare la tua città o che altro e semplicemente andare via. Ritornando non appena hai deciso che è ora di tornare. Non c’è una scadenza. Non c’è un obiettivo. Non c’è una destinazione in testa. Vai solo via e vedi ciò che vedi.
Ed è più o meno quello che sto facendo. Ho qualche obiettivo semplice. Voglio uscire e suonare. Voglio fare del mio meglio per supportare la musica che ho creato. Quindi, se questo significa parlarne alle persone o suonare qui o là o in TV o che ne so, allora bene. Non faccio assolutamente altro che farlo.
Ma, su un piano più profondo, non so quali sono i prossimi passi aldilà di questi ma sono contento di proseguire finché non lo scopro. Penso solo che c’è un sacco di creatività e ho intenzione di prendermi tutto il tempo per approfondire dove questo percorso potrebbe portarmi. E’ più importante il viaggio che la destinazione, penso sia questo che sto dicendo.
Tradotto da: GQ.com