One More Light: la nostra recensione

Nella giornata di oggi anche lo staff ha avuto la possibilità di ascoltare interamente il settimo album One More Light, per il quale vi riportiamo di seguito due recensioni. Buona lettura!

Accolti dallo staff della Warner Music Italy e dai ragazzi di Rolling Stone Italia, ci accingiamo a prendere posto sui divani della terrazza della sede della Warner. Come prima cosa, ci viene mostrato un breve videomessaggio di Chester e Phoenix in cui ci ringraziano per la partecipazione al pre-ascolto. Nulla in particolare.

Ma passiamo al disco vero e proprio.

Ciò che voglio permettermi di anticipare è, come avrete forse intuito, che abbiamo di fronte un disco completamente diverso dal precedente The Hunting Party e soprattutto dal resto della loro discografia. Mai fino ad ora i Linkin Park si sono spinti così in avanti verso il vasto mondo della musica pop, sapendo perfettamente di compiere un enorme rischio. Ma c’è da dire che non sono affatto nuovi a questo genere di rischi (del resto, il primo “rischio” risale a dieci anni, quando buttarono fuori Minutes to Midnight) e da una parte c’è chi ha apprezzato il loro continuo cambiamento e chi continua a sperare (invano) un ritorno alle origini.

Tuttavia, ciò che abbiamo di fronte a questa nuova fatica è un gran senso di amarezza e di delusione. E non è questione della sua brevissima durata (poco più di 35 minuti) o dell’assenza di scream e di chitarre (quest’ultime in verità una buona costante di tutto il disco), ma proprio una sensazione di già sentito: gran parte delle basi strumentali risultano prive di qualsivoglia originalità e alcuni testi, per quanto possano risultare molto intimi e strettamente personali, presentano eventi tanto cari alla band già dagli esordi.

Ma andiamo con ordine.

L’album si apre con Nobody Can Save Me, brano che, nonostante i ripetuti ascolti, non sembra entrare completamente in testa e si tende a dimenticarla (è possibile che in futuro la situazione cambierà). Dopo una breve introduzione caratterizzata da vocine campionate (che, ahimè, avremo a che fare con gran parte dei restanti brani), il dolce cantato di Chester da vita a una canzone tutto sommato sostenuta ma ripetitiva e a tratti abbastanza simile alla quarta traccia dell’album, Battle Symphony (complice probabilmente gli stessi autori di entrambi i pezzi: Mike, Brad e Jon Green dei Bonfires). Il secondo brano è Good Goodbye, singolo uscito già il 13 aprile e che in molti hanno già avuto modo di ascoltare. Sotto una base simil-trap nelle strofe e un ritornello con evidenti richiami al singolo del 2012 Lost in the Echo, il testo è molto sarcastico ed è un episodio a parte all’interno del disco. Ma è proprio l’esperimento in sé che da un gran senso di sgomento e un continuo porsi di domande: era davvero necessario una cosa del genere?

Passiamo oltre: la terza traccia, Talking to Myself, è uno di quei pochi brani dell’album che a mio avviso può mettere d’accordo tutti. Un brano sfacciatamente pop rock caratterizzata da una prestazione vocale di Chester accettabile contornata da una linea robusta di basso e da riff allegri di chitarra, con tastiere, synth e batteria a fare da sottofondo. La successiva Battle Symphony (secondo pezzo complessivo estratto dal disco) parte e finisce male: vocine campionate fanno da introduzione a un brano sì energico e solare (musicalmente parlando, sia chiaro) ma decisamente scontato e noioso dal lato testuale. Arriva il turno della malinconica Invisible: stavolta è la voce di Mike ad essere protagonista, il quale tratta il difficile momento in cui un genitore sente il bisogno di dire ai propri figli qualcosa che non vogliono sentire.

La seconda metà dell’album si apre con la controversa e brevissima Heavy, oggetto di discussione da parte di fan e critica specializzata. Un brano pop palesemente scopiazzato dalle svariate hit radiofoniche odierne dove la voce Chester si alterna con quella della giovane cantante Kiiara in un testo fin troppo scontato appartenente a una tematica vista e rivista. A ribaltare completamente la situazione è Sorry for Now, il brano a mio avviso più controverso e bizzarro del disco. Se da un lato la voce di Mike risulta a tratti gradevole, dall’altro abbiamo un miscuglio di sonorità (interamente composte da Mike stesso) tra il ridicolo e l’imbarazzante. Per non parlare del rappato piuttosto anonimo di Chester nel bridge e, ovviamente, del drop vocale e dell’abuso esagerato dell’808 drum. L’ottavo pezzo è Halfway Right: una canzone più soft rispetto alla precedente, ma non più di tanto: la base pop/trap entra facilmente in testa, così come il cantato di Chester (non sarebbe una sorpresa per me se apparisse nelle future scalette), ma nel complesso si rivela un brano completamente anonimo e statico.

A concludere il disco sono due canzoni. La prima è la title track, forse il pezzo migliore del disco nonché quello più toccante e triste: una ballad assolutamente e volutamente scarna, composta da voce, chitarra e pianoforte, che cullano e fanno riflettere l’ascoltatore dall’inizio alla fine. La seconda ed ultima è la particolare Sharp Edges: un breve pezzo country che strizza in maniera piuttosto palese l’occhio ai Yellowcard e caratterizzato da un climax sempre crescente e tutto sommato coinvolgente, ma che potrebbe lasciare l’amaro in bocca ad alcuni ascoltatori, sia per il motivo di concludere un disco in questa maniera sia (per i più positivi) per il fatto che sarebbe potuta essere più lunga.

Tirando le somme, abbiamo un disco sicuramente difficile da digerire ma non per questo completamente da buttare (anche se non nascondo il fatto che le mie speranze erano sotto lo zero in seguito agli ascolti dei primi brani estratti dall’album). Si ha di fronte la voglia della band di andare contro le regole ma si ha soprattutto addosso la delusione di un gruppo che in passato è stato in grado di sfornare pezzi di tutt’altro calibro e di una personalità non comune a pochi, cosa che non si è evidenziata per niente in questo disco.

Ripongo lo sguardo verso un futuro ottavo album, con l’auspicio di rivedere una band più solida.

Recensione a cura di Dennis Radaelli

 

Negli ultimi mesi si sono spese parole, articoli e insinuazioni a sufficienza in preparazione all’uscita di One More Light, la settima fatica dei Linkin Park. Fin dall’inizio era chiaro un cambio di direzione repentino rispetto al tanto elogiato The Hunting Party ed era una scelta a cui dare il benvenuto: The Hunting Party era per sua natura e costituzione un epitaffio alla scena alternative rock e metal degli anni ’90, una sua continuazione nel nuovo album sarebbe stata quanto meno stucchevole.

Eppure, una trasformazione di questo tipo era imprevedibile.

One More Light è per certi versi difficile da approcciare, tale è la rottura con la continuità data dal precedente album. Invero, vedendo l’evoluzione dei Linkin Park durante gli ultimi lavori, c’è da chiedersi quali siano le idee che si celano dietro alla verve compositiva dei nostri. Per questo album duole dire che la volontà di Mike & co. di produrre costantemente qualcosa di nuovo pare abbia portato verso lidi non consoni alle loro qualità e capacità artistiche. Durante i 35 minuti di One More Light è difficile trovare un qualunque momento degno di nota a dimostrare che la scelta che ha fatto da base a tutto l’album fosse giusta. Tutt’al contrario ci troviamo davanti a dieci tracce spente, ripetitive e senza mordente. Attenzione; ciò non è da imputare all’evidentissima tornata pop: senza andare a scomodare mostri sacri come gli ABBA o Michael Jackson, in tempi recenti musicisti come gli Imagine Dragons e i Röyksopp hanno dimostrato come l’unione fra elettronica e pop possa portare risultati più che buoni. One More Light mostra certe somiglianze soprattutto con i secondi, mancando però della loro inventiva ed efficacia.

Quel che manca è in primo luogo proprio l’inventiva. Tutte le dieci canzoni hanno un sapore di già sentito (altrove e meglio) difficile da mandar giù che fanno muovere la qualità media dell’album fra l’urticante e il noioso. Episodi come Sorry for Now, con la sua base glitch e il suo ritmo canterino, risultano quasi fastidiose nella loro banalità, l’esperimento di Chester come rapper non può risollevare le sorti di una canzone che inizia male e finisce peggio. Un altro problema notevole di One More Light è la ripetitività. Nonostante la durata contenuta ci si ritrova ripetutamente ad ascoltare le stesse soluzioni compositive, gli stessi accordi e le stesse atmosfere. Il risultato è che le varie canzoni si appiattiscono sullo stesso (basso) livello in una massa grigia e amorfa in cui tutti gli elementi sono interscambiali e non lasciano mai nulla all’ascoltatore. Durante la scrittura di questa recensione, chi scrive ha estreme difficoltà a ricordarsi dove ha sentito cosa e c’è da impegnarsi seriamente per individuare ciò a cui ci si vuole riferire. L’unica canzone in cui si prova a fare qualcosa di diverso è la title track. Ma questo non significa che sia una buona canzone. Tutt’al contrario: è una canzone che si tira per le lunghe senza mostrare mai segni di miglioramento, dilungandosi per quattro lunghi minuti che potrebbero durare due in più o due in meno senza fare alcuna differenza. Noiosa a dir poco. Una buona canzone o ballata pop dovrebbe essere canticchiabile e rimanere facilmente impressa, il contrario di ciò di cui si è testimoni ascoltando One More Light.

Se proprio si vuole trovare un elemento buono per questo album è la produzione: eccelsa e chiara, a testimoniare la maestria che i LP hanno ormai ottenuto con gli strumenti in studio. Ma anche la miglior produzione al mondo non può far molto se le canzoni che vengono prodotto sono scialbe e piatte. Nobody Can Save Me per esempio sin dall’inizio mostra una mancanza di idee a cui qualunque prodigio della tecnica non potrebbe porre rimedio. Lo stesso discorso si può allargare a tutte le canzoni dell’album.

L’unica canzone che forse può essere salvata di questo album francamente disastroso è Sharp Edges (dove parlare di ispirazione ai Yellowcard è eufemistico) grazie al suo lieve crescendo e al suo ritmo dondolante e una melodia canticchiabile che, a differenza di tutte le altre, rimane effettivamente in testa. Rimane troppo poco per una band che in passato ci ha abituati ad album, alcuni più altri meno, di qualità e con almeno una manciata di canzoni memorabili. Una produzione cristallina e di alto livello non può essere l’unico elemento degno di nota di un album, eppure è l’unico che One More Light possa avere. Rimane solo da sperare che il futuro abbia in serbo per noi album migliori. Visto il punto che si è raggiunto con questo album, non dovrebbe essere difficile.

Recensione a cura di Giorgio Chiara