Il 6 Settembre, dopo un solo anno dal concerto di Milano, i Linkin Park sono tornati in Italia per il primo concerto della loro carriera a Roma. Per l’occasione abbiamo deciso di ricordare questa magnifica esperienza con ben due resoconti. Buona lettura!
Sono ormai tre ore che siamo sotto al sole cocente di Roma in fila davanti all’Ippodromo delle Capannelle. Il concerto comincia alle 20:15, ma le porte aprono ben sei ore prima, e noi stiamo qui a cuocerci. Siamo nella fila per l’ingresso anticipato riservato ai membri di Linkin Park Underground e finalmente vengono controllate ricevute e documenti d’identità e la coda comincia a muoversi. Con sommo stupore di tutti quanti, appena ricevuto il braccialetto per entrare nel pit si deve tornare indietro nella stessa fila questa volta per entrare. Porco qui e porco lì e ci si rimette di nuovo in coda, che questa volta fortunatamente passa in poco tempo.
Ed è così che parte il campeggio davanti al palco nella speranza che l’attesa non sia troppo tormentata, speranza presto svanita nel momento in cui le masse di gente che si riversano nel pit e in tutta la zona circostante cercano di accaparrarsi un posto più vicino possibile al palco. E ovviamente ci mettiamo poco a immedesimarci nelle sardine in scatola per ore interminabili, un’esperienza da (non) rifare il prima possibile. Uno dei motivi principali per cui questa attesa è una tortura sono i due spot che vengono riprodotti a ripetizione sui maxi schermi e sono sicuro che risentire anche solo cinque secondi della musica che li accompagnava provocherà nei presenti compulsioni e attacchi di isteria. Comunque fra spinte, scottature, improperi e fondoschiena che assumono sempre di più forma e consistenza di un mattone, il cielo si oscura ricordando a tutti che l’ora del concerto si fa sempre più vicina. Ormai nessuno sta più seduto e la calca si fa sempre più asfissiante.
Sul palco fanno la loro comparsa i Simple Plan e il pubblico si divide alquanto chiaramente in quelli a cui fa piacere la presenza dei cinque canadesi e in quelli che preferirebbero friggerli nell’olio di ricino. Essendo i Simple Plan però solo l’antipasto della serata la loro performance è breve e finisce presto per la tristezza dei fan presenti e per la gioia di quelli dell’olio. Ora niente più si frappone fra i Linkin Park e le 35.000 persone che sono accorse per vedere dal vivo i loro beniamini. Niente a parte le prove tecniche e mezz’ora di ritardo ma tant’è, ormai mezz’ora in più o in meno in piedi non fa differenza.
Si apre con Papercut che subito mostra la verve ispiratissima dei Linkin Park e del Joe Hahn tarocco che rimpiazza l’originale tornato in patria per motivi familiari. Soprattutto è da evidenziare un Chester Bennington sugli scudi che da tanto tempo non si vedeva così euforico. Il tumulto della folla è ormai impetuoso mostrando un pubblico che di certo non manca di calore e di passione. La scaletta pone proprio all’inizio la maggior parte del materiale “pesante” della serata per scaldare gli animi ed entusiasmare. Rebellion e A Line in the Sand sono da segnalare come due dei pezzi più riusciti della serata. La scaletta prosegue inesorabile in un tripudio di urla e pogo. Given Up, One Step Closer, From the Inside, tutte suonate una meglio dell’altra. Ad un certo punto, durante Wastelands Chester comincia anche a prendere a pugni l’aria donando una pittoresca pioggia di sudore bracciale sulle prime file di fronte a lui. Il cantante comincia anche con la solita frase “You are the best crowd in rock history!”. Certo signor Bennington, ha ragione come aveva ragione le altre mille volte che l’ha detto ad altri mille concerti; la frase notoriamente aumenta di significato più spesso viene detta. È un po’ come se Hugh Hefner dicesse di essere innamorato a tutte le donne con cui ha copulato nella sua vita. Ma a pensarci bene un pubblico così non lo si vede spesso. Man a mano che le canzoni proseguono, l’energia incandescente dell’inizio da sempre più spazio alle emozioni e alle ballate. Fra le emozioni di Breaking the Habit e la classica Numb trova spazio Final Masquerade, zenit per cui è stato predisposto il nostro flashmob. La canzone ha appena fatto in tempo a partire che il mare di gente di fronte al palco si riempie di led e palloncini, diventano sempre di più, sempre di più. Un arcobaleno sul mare in tempesta e una pioggia colorata ondulata da migliaia di braccia che lanciano palloncini di qua e di la. Sono abbastanza sicuro che sotto gli effetti dell’LSD il mondo sia sempre visto più o meno in questo modo.
La scaletta principale si conclude con In the End e Faint, due cavalli di battaglia che fanno sempre il loro figurone ma il momento topico della serata deve ancora arrivare. L’encore di rito si apre con Chester che ringrazia i ragazzi di Linkin Park Underground e quelli di Linkin Park Italia che hanno permesso il perfetto svolgimento della serata. Indica anche la bandiera che noi di LPIT abbiamo fatto firmare da quanti più fan possibile e che è stata attaccata alla tastiera di Mike ad inizio concerto. Segue il toccante ricordo di Alessandro, il fan che è venuto a mancare in un terribile incidente ormai mezz’anno fa. Ad un certo punto si leva un urlo “A Place for My Head!” che velocemente si sparge per tutto il pubblico. Un coro che si ripete e si ri-ripete. Una cosa normale durante un concerto, non fosse che i componenti del gruppo sembrano pensarci seriamente su. Non può essere dai, il brano non è su una scaletta ufficiale da ormai due anni, non è che ora partiranno a farla solo perché così chiede il pubblico. Chester allarga le braccia: “AS YOU WISH!”. Brad si allontana dalla tastiera da cui deve suonare Waiting for the End. Cosa?… Brad va verso le chitarre. No… Mike dice che è un evento mai accaduto prima e che i tecnici devono accordare la chitarra di Brad per la canzone. NO! Brad torna sotto i riflettori suonando l’introduzione di chitarra di A Place for My Head. Apoteosi. Tra il pubblico non c’è più contegno. Estranei che si abbracciano, atei che si convertono, esultanza collettiva e pace nel mondo. La folla ora è più calda che mai e urla a squarciagola dando il colpo di grazia alle corde vocali già estremamente provate. Chester chiede se era la canzone preferita di Alessandro. Non si sa e a nessuno importa, di certo non gli avrebbe fatto schifo poterla sentire dal vivo e non c’era modo migliore di ricordarlo.
https://www.youtube.com/watch?v=v6cI6KXzCc0
Il resto dell’encore fila via con la stessa energia e quando finisce Bleed It Out purtroppo finisce anche questo favoloso concerto. Brad saluta con la manina come se noi fossimo i bambini di Città Laggiù e lui Tonio Cartonio. La massa di persone si dirada, tutti si incamminano verso le uscite, magari prendendosi qualche beveraggio per reidratare un corpo che è come se avesse appena fatto una maratona attraverso il Sahara scalzo. Corde vocali a pezzi. Sudorazione a livelli biblici. Tanfo indicibile.
Ma nessuno è scontento. Proprio nessuno.
Giorgio Chiara
Volete leggere un report più oggettivo? Date un’occhiata all’articolo scritto dal nostro Gazza per Outune.
Siete d’accordo con noi? Quali sono i vostri ricordi di questa serata memorabile?
Foto di: Denise Esposito, Firestone, Daniele Hetfield