Wretches and Kings – La recensione

Questo articolo è stato pubblicato più di 14 anni fa e fa riferimento a notizie molto datate e pubblicate probabilmente su una precedente versione di questo sito; è pertanto possibile incorrere in problemi di visualizzazione di testi e/o immagini e in link che puntano a pagine non più esistenti o spostate.

“Breve saggio”.

Abbiamo ora, fra le nostre mani e finalmente, la “smoking-gun” del concept-album che scuoterà le coscienze di chi fino a questo momento aveva una certa idea di chi fossero i Linkin Park, nel bene e nel male. Se con un primo dubbioso ascolto di The Catalyst, quasi spiazzati da un brivido sinistro che aveva scatenato il nostro sistema nervoso centrale, avevamo iniziato a domandarci seriamente di che cosa stessimo esaminando, e specialmente ad opera di chi, oggi invece abbiamo l’assoluta certezza che qualcosa è decisamente cambiato nelle file del gruppo californiano e che, per una volta, le tanto criticate anticipazioni “propagandistiche” del gruppo riguardo a temi e significati sono oggi confermate nei fatti e nella musica in maniera chiara, nitida, face to face.

Un conto è un singolo di lancio e un conto è un brano estratto direttamente da un disco, preso singolarmente, non previsto nella lista dei papabili singoli almeno ufficialmente. Scegliere un singolo è qualcosa che dipende da diversi parametri, come l’orecchiabilità dello stesso se si vuole “vendere”, o il fatto che contenga qualcosa di rappresentativo del significato generale dell’opera se si vuole invece “trasmettere”.

The Catalyst è IL singolo rappresentativo di qualcosa che prima non conoscevamo e che oggi invece, scopriamo un po’ di più. Un pezzo alla volta. Forse, più che di trasmettere, la funzione di The Catalyst è quella di “avvertire”, di “predisporre” l’ascoltatore a qualcosa che sta per affrontare. E infatti il contatto con Wretches And Kings è qualcosa di diametralmente opposto a quello avuto con il singolo. Uno ti prende quasi per mano, illustrandoti un mondo sfigurato dalle divisioni, dai sensi di colpa, e dal destino oramai segnato. L’altro è molto di più che un semplice j’accuse: è il midollo, la radice, la verità nuda e cruda che i fumi e le apparenze di The Catalyst celavano in maniera quasi sospetta. Wretches And Kings è il proiettile che si scopre dentro la busta sigillata.

Il brano è un grido disperato alla rivolta, un superamento di ogni immagine evocativa, è un mostrare come stanno le cose direttamente, aprendo una finestra sul mondo. E’ una scossa, un’iniezione anarchica di adrenalina, a partire dal discorso megafonato iniziale, che porta all’annichilazione sonora seguente. Una cascata di acido corrosivo sui timpani caratterizzata da pareti di chitarre robotizzate, masturbazioni digitali, suoni sporcati, distorti, deviati, e nonostante questo, messi ordinatamente in riga da una base dal tiro quasi teutonico, militare, una marcia adatta a scatenare.. La rivolta appunto. La protesta, la ribellione, come suggeriscono sia le liriche sia gli intermezzi di discorso pubblico ripresi dall’inizio, discorso scelto non a caso e recitato non a caso da Mario Savio, attivista americano dei diritti civili, la cui attività si è concentrata negli anni ‘60/’70, dove ancora negli USA in materia (valga l’esempio degli afroamericani) c’era ancora molto di cui discutere.

Tornando alla musica, si diceva di un ritmo del pezzo trascinante, a tal punto da causare quasi assuefazione, volutamente ridondante e ripetitivo (elemento condiviso con il singolo), a metà strada fra Boomfunk MC’s e Beastie Boys, in cui i cupi ed aggressivi versi in quattro quarti di un’incontenibile Shinoda sono scanditi da quel beat micidiale, secco come un Martini, arricchito dagli amplessi sui deck di un definitivamente redivivo Joe Hahn, che si mette in evidenza specialmente nel finale a colpi frenetici di scratch, quasi a voler piegare le punte diamantate dei piezoelettrici. Nella danza che assume quasi un tono rituale nella parte centrale, trova pure spazio Mr. Bennington, e non certo con un ruolo da comprimario. Anzi, esattamente dove fino a poco tempo fa sembrava aver perso la sua collocazione naturale, Chester fa da perfetta spalla a un Shinoda in un chorus emozionalmente struggente.
Rare volte, almeno recentemente, Bennington aveva dato prove convincenti come questa anche laddove Mike, di fatto, riesce a divenire il fulcro attorno al quale tutto il brano fa leva.

“Welcome to the machine”.