Linkin Park – Minutes to Midnight

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Minutes to Midnight è senza ombra di dubbio l’album più discusso e chiacchierato dei Linkin Park. Dopo aver sfornato due album al crepuscolo dell’era del cosidetto nu metal, i sei californiani si accingevano a esplorare lidi musicali a loro sconosciuti, distaccandosi da quanto fatto in precedenza e cercando nuove strutture compositive ed emozioni di stampo diverso. Per loro è stato senza ombra di dubbio un tuffo nel vuoto, ma senza ombra di dubbio l’unico modo per sopravvivere nell’ industria musicale mainstream. Per quanto lo sforzo e il coraggio di reinventarsi sia nobile e più che apprezzabile, il risultato mostra alti e bassi; episodi riuscitissimi alternati ad altri di cui non si può dire lo stesso.

Ma andiamo con ordine.

Le principali differenze che possiamo riscontrare tra Minutes to Midnight e gli album pubblicati in precedenza è una tendenza verso composizioni più ispirate al pop rock che all’alternative metal. Spariscono quindi i power chord, il rap di Mike Shinoda e gli scream di Chester Bennington diminuiscono drasticamente, i testi anzichè esprimere ruvida frustrazione e rabbia adolescenziale sono orientati verso tematiche più mature e politiche, mentre Joe Hahn sparisce quasi completamente dalla scena come DJ. Brad Delson si cimenta anche in alcuni assoli di chitarra, una novità assoluta per i Linkin Park che conferma la loro ispirazione tratta da gruppi classicamente soft rock come U2 o i REM.

L’album inizia con la strumentale Wake che, pur non essendo nulla di che sotto il profilo prettamente compositivo, crea un’ottima atmosfera “da risveglio” che fa capire che dopo quattro anni i Linkin Park sono tornati sulle scene. A Wake fa seguito Given Up, una delle canzoni più aggressive mai composte dai nostri in cui fa capolino un inaudito urlo di Chester lungo ben 18 secondi. Una cosa da infarto se si pensa alla resistenza vocale necessaria. Ma non è questo l’unico motivo per cui Given Up è degna di nota. Anche il basso di Phoenix finalmente si fa sentire e Rob Bourdon mostra tutte le sue capacità di batterista, non facendo nulla di spettacolare ma ritmando in maniera azzeccata la canzone.

Ma già con Leave Out All the Rest vengono alla luce i primi difetti dell’album. Per quanto sia una canzone che si lascia ascoltare piacevolmente, manca completamente di carattere e di una qualsivoglia scintilla che possa renderla veramente interessante. E così un tentativo di ricreare atmosfere quasi trip hop in realtà ricordano i Badfinger più che gli Archive. Più efficace è Bleed It Out con un ritmo saltellante e un riff di chitarra semplice ma efficace a sottolineare un ritornello orecchiabile dal sicuro appiglio. I Linkin Park si dimostrano anche saggi abbastanza da farla terminare dopo neanche tre minuti di durata, di più effettivamente avrebbe solo allungato a dismisura una canzone che non aveva più niente da dire. La successiva Shadow of the Day crea delle ottime e malinconiche atmosfere, ma è fin troppo ispirata da With or Without You degli U2 (ai limiti del plagio in certi tratti). Ma si tratta di una canzone che riesce comunque a scamparla grazie ad un intelligente uso dell’orchestra e grazie all’ottima prova canora di Chester.

Fa seguito la (fin troppo) sentita What I’ve Done. Una piacevole canzone rock ma nulla più. Veramente notabile è solo la prova alla batteria di Rob Bourdon e uno dei rarissimi interventi di Joe Hahn. Per quanto trascinante è tutt’altro che un brano memorabile in cui nel finale fa capolino un irritantissimo “na na na” di Mike Shinoda che però è l’assoluto protagonista di Hands Held High. Il rap è il solitario protagonista di una canzone emozionante e dal gusto ecclesiastico. Una preghiera di reverendo Shinoda per un mondo futuro migliore che si scaglia contro la guerra e l’ingiustizia. Un brano pieno di emozioni in uno degli episodi più riusciti dell’album.

No More Sorrow è d’altro canto una canzone ruvida in cui fa di nuovo capolino la batteria di Rob Bourdon a rendere potente un brano dal forte impatto grazie ai suoi ruvidi riff di chitarra e gli scream di Chester. Tutt’altro che memorabile è, al contrario, Valentine’s Day. La prova del sempre ottimo cantante non basta a sollevare una canzone scialba e senz’anima. In teoria dovrebbe essere una canzone in grado di far comparire una lacrimuccia negli occhi dello spettatore ma in realtà non fa altro che provocare sbadigli. La canzone sa troppo di già sentito e il delicato arpeggio di chitarra finisce con l’annoiare con la sua ripetitività. Ma Valentine’s Day non è neanche lontanamente noiosa quanto la successiva In Between. La prima prova da cantante autonomo di Shinoda si dimostra essere un clamoroso buco nell’acqua, dando vita ad una canzone né carne né pesce e diventando uno strazio lungo tre minuti in cui si spera che finalmente il brano parta davvero ma che invece va in retromarcia più a lungo prosegue.

Fortunatamente Minutes to Midnight finisce con le due canzoni migliori del plotto. In Pieces con il suo crescendo costante e un ottimo dosaggio dei suoi vari elementi crea un vortice emotivo e sonoro da cui è difficile non farsi affascinare. Ma dove l’album raggiunge il suo apice è in The Little Things Give You Away, una ballata rock degna dei migliori Pearl Jam. La canzone inizia piano piano e introduce costantemente nuovi elementi con un climax finale a cappella semplicemente incanevole. L’assolo di chitarra e l’intero intermezzo sottolineato dal mai troppo lodato Bourdon provocano pelle d’oca e brividi lungo la schiena. Fuor di dubbio la miglior canzone dell’album e una delle più riuscite dell’intera carriera dei Linkin Park.

Concludendo, Minutes to Midnight è un album con alti e bassi. Alcuni episodi riuscitissimi non gli tolgono la targa di essere l’album forse più debole della loro carriera. Nonostante i suoi tanti ed evidenti difetti era la mossa giusta all’epoca e aprì le porte verso ciò che i Linkin Park sono poi diventati.