Linkin Park – Living Things

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I Linkin Park sono senza ombra di dubbio il gruppo più discusso del nuovo millennio. Ormai è banale dirlo. Sin dall’album di esordio Hybrid Theory il mondo si divise in filolinkinparkiani e antilinkinparkiani. Sulla loro carriera è stato detto e scritto di tutto e di più, parlarne ancora non sarebbe altro che una noiosa e inutile ripetizione di quanto già detto negli ultimi dieci anni. 
Fatto sta che in questa estate del fatidico 2012 i sei californiani si sono presentati con il loro quinto album, Living Things. Dopo A Thousand Suns il rischio di presentarsi con un clamoroso buco nell’acqua era alto. D’altronde i Linkin Park hanno fatto di tutto per lanciare malissimo il loro album, partendo dal silenzio assoluto che ha avvolto questo album fino a pochi mesi fa. Il cattivo pensiero che stessero passando sotto traccia perchè il nuovo materiale non appassionava nemmeno loro era lecito, fino ad ora si era abituati ad una pubblicità nauseante per ogni minuto di musica da loro composto. Il primo assaggio di metà aprile, Burn It Down, era tutto sommato deludente; mentre il secondo assaggio di maggio, Lies Greed Misery, fece correre ai ripari molti fan (fra cui il sottoscritto). Il pessimismo si stava insinuando in molti ambienti legati ai Linkin Park, quasi al pari di chi aspettava trepidante l’album, sicuro della sua bontà. Non restava che aspettare pazientemente la release date dell’album e vedere cosa avevano composto i sei. 

Partiamo dicendo subito che Living Things è un bell’ album. Piacevole da ascoltare e sufficientemente fresco nelle sue idee da non dare quel fastidioso senso di già sentito che avrebbe potuto attanagliarlo, salvo alcune eccezioni. Un album sperimentale, per quanto sperimentali possano essere i Linkin Park, e che cerca di continuare il percorso di innovazione partito nel 2007 con Minutes to Midnight. Rispetto al predecessore A Thousand Suns, si nota subito una maggiore semplicità, ma non banalità, nella costruzione dell’ album. Non si tratta di un album concettuale ma di una raccolta di canzoni, ognuna con la sua identità ben precisa e delineata.
Al primissimo ascolto non si potrà che essere colpiti da una canzone, nel bene o nel male: Victimized. Un pezzo folle, una presa in giro, violenta, aggressiva e senza senso; ma funziona! Adrenalina pura che ricorda certo hardcore degli anni ’80 con le sue atmosfere spettrali e oscure. La batteria del sempre eccellente Rob Bourdon martella l’ascoltatore in maniera semplicemente folle, non importa se con una grancassa secca come il pane ferrarese in accompagnamento a Mike Shinoda o con un violento muro di percussioni a sottolineare gli scream di Chester Bennington. È proprio per via della sua violenza che è la prima canzone che rimane impressa nella mente dell’ascoltatore, al di là del fatto che piaccia o meno. Ovviamente l’album non è tutto come la pazza Victimized. Roads Untraveled, per esempio, è una ballata dolce in cui l’elettronica che fa da padrone in tutto l’album è lasciata da parte per la gioia dei detrattori della musica “fatta con il computer”. Questo è il pezzo più malinconico e sognante di tutto l’album e al contempo dolce. Il carillon che fa da sottofondo a tutta la canzone dona a Roads Untraveled un’atmosfera particolare; sarebbero molto azzardati inutili paragoni con il carillon di Ennio Morricone in Per Qualche Dollaro in Più, ma l’intenzione dei Linkin Park è la stessa.
Troviamo però anche pezzi decisamente meno riusciti. Burn It Down è una canzone piatta e che difficilmente si ricorderà nel futuro della band; troppo simile, soprattutto nel ritornello, a vecchie canzoni del gruppo e senza quel elemento in più che fa si che possa essere ricordata. Dove però l’album raggiunge il suo punto più basso è, senza ombra di dubbio, Lies Greed Misery. Un’accozzaglia di elementi differenti senza collante. Alcuni all’uscita di questa canzone la definirono “rumore”; forse è un termine un po’ forte, ma che non si allontana eccessivamente dalla realtà dei fatti. Forse è la mia innata antipatia verso la dubstep, genere a cui Lies Greed Misery attinge a piene mani, ma in ogni caso si tratta di una canzone debole, il vero punto debole di Living Things. Fortunatamente si tratta di due casi isolati e ancora più fortunatamente esiste il tasto skip, basta premere quello e coloro a cui non piacciono possono far finta che quelle due canzoni non siano mai esistite.

Passando dall’abisso più profondo è cosa buona e giusta avventurarsi subito alla vetta più alta dell’album: Lost In The Echo. Un perfetto amalgama di elettronica e strumenti veri. Lost In The Echo è la summa di tutto l’album. Elettronica, chitarre, scream, canto melodico, rap, ottimi ritmi e quant’altro si possono trovare in questa canzone; anche gli scratch che hanno reso famoso Joe Hahn sono tornati. Un’altra piccola perla è la, purtroppo brevissima, strumentale Tinfoil che ricorda certo post rock dei Mogwai, la sua pecca è di durare un esile minuto e undici secondi aprendo la strada alla ballata Powerless. Buona conclusione dell’album. I primi secondi sono un autoplagio dei Linkin Park che ricopiano spudoratamente Burning In The Skies da A Thousand Suns, per poi tuttavia prendere una strada completamente diversa, per fortuna. Nel suo lento incedere, Powerless è quasi epica, in ogni caso emozionante. Una canzone che dal vivo non farà prigionieri. Completamente diversa è Until It Breaks, la traccia più strana e complessa dell’album. Il rap di Mike Shinoda fa da capolino con brevi inserti di Chester Bennington e, udite udite, Brad Delson che si cimenta in un cantato semplice ma efficace sul finire della canzone. Di nuovo Rob Bourdon con i suoi tamburi è da elogiare. Ciò che colpisce è la struttura della canzone, a parte l’assenza di un ritornello, cosa in cui i Linkin Park già si sono cimentati; Until It Breaks a differenza della maggior parte delle canzoni mai composte parte con ritmi più serrati e aggressivi per calmarsi con il passare del tempo. Parte come una marcia e finisce come un sogno. 
Ultima nota di merito va alla crepuscolare Castle Of Glass, canzone dove sarà difficile fare un distinguo fra i due cantanti tanto bene si amalgamo l’uno con l’altro. Le rimanenti tre canzoni I’ll Be Gone, In My Remains e Skin To Bone si rivelano essere canzoni piacevoli da ascoltare ma prive del mordente che caratterizza altri brani di Living Things. 

In conclusione, i Linkin Park hanno dato vita ad un altro bell’album. Living Things non fa gridare al miracolo, non è il miglior album della storia della musica e probabilmente neanche il miglior album composto dai nostri. Abbiamo fra le mani un album con alcune punte di eccellenza (Lost In The Echo, Tinfoil) e alcuni clamorosi buchi nell’acqua (Lies Greed Misery) in cui le buone canzoni hanno decisamente il sopravvento. In ogni caso questo è l’album della definitiva maturazione del gruppo che ormai sa giostrare con sapienza i propri strumenti e al contempo innovarsi a sufficienza per non cadere nel già sentito.
Avanti così.