Prima o poi, presto o tardi, arriva il momento, nella vita di un artista del mondo della musica, di voler fare qualcosa di nuovo. Puoi aver lavorato per anni allo stesso progetto, esserti dedicato anima e corpo ad una causa, ritenerti il più fedele dei membri del tuo gruppo, ma arriva, inesorabile, il giorno in cui ti rendi conto che se, anni anni fa, avessi deciso di prendere l’altra strada, di aprire l’altra porta, ora saresti completamente un altro. Mike Shinoda, storico rapper dei Linkin Park, se n’è reso conto nel 2005, anno che per lui ha culminato nella pubblicazione del suo progetto laterale Fort Minor: ed infatti The rising tied non solo è un album di ottima fattura, ma addirittura uno dei dischi alternative rap migliori dell’ultimo decennio.
Uno Shinoda che lascia la briglia libera al suo istinto da produttore e da rapper, quindi, del tutto svincolato dall’immagine e dal peso dei Linkin Park alle sue spalle: uno Shinoda in forma smagliante, che si avvale della collaborazione degli Styles of Beyond, dei Black Violin e di una schiera di musicisti di ottimo calibro: uno Shinoda capace di mescolare di tutto, e lo si capisce sin da Remember the name, seconda traccia, che, dopo la sperimentale Introduction, propone un beat di violini e batteria pesante, roba agrodolce insomma, incredibilmente ben riuscito, sostenuto da liriche molto ben gongegnate, sia da Mike che dagli Styles of Beyond. Dopo il primo, riuscitissimo singolo è il momento di Right now, che ripropone la stessa formula, mescolando dolci note di piano e batteria: la musica cambia, però, con Petrified, che strizza l’occhio al mainstream rap soprattutto nei synth e nella batteria spinta. E’ giusto un momento però, un tradimento momentaneo, perchè sin dalla traccia successiva, Feel like home, uno Shinoda mai così vicino allo stile dei The Roots tira fuori un gran colpo di teatro, un pezzo quasi jazz rap, che trasuda odore di parquet e caffè caldo: e, nel caso ancora non bastasse, l’attenzione dell’ascoltatore è definitivamente catturata da Where’d you go, altro singolo di gran successo, e di grande impatto sonoro, data la contrapposizione tra la dolcezza del beat e la durezza del testo, già ottimamente sperimentata in quel capolavoro che porta il nome di Stan, Eminem e Dido.
Le sorprese ancora non sono finite, logicamente: l’album è a poco meno della sua metà, e Mike già si mostra sotto una veste completamente diversa da quella che aveva sfoggiato in Meteora, infinitamente meno nu metal e meravigliosamente più underground rap. E nella seconda parte del disco esce proprio la componente underground, a partire da In stereo, passando da Back home (che avrebbe tranquillamente potuto essere un pezzo di Common), la struggente, malinconica e profondissima Cigarettes e l’altro singolo Believe me, esercizio di stile dannatamente ben riuscito. Ed è solo ora, quasi a tre quarti del disco, che l’ascoltatore abitudinario di alternative rap nota l’assoluta mancanza di skit, parlate, componente fissa di molti dischi dell’ultimo decennio; ecco, dunque, che uno Shinoda parecchio rilassato comincia a raccontare i suoi trascorsi con gli Xero e i dibattiti con i giornalisti in Get me gone, sostenuto da un beat di piano, batteria e maracas di quelli da far muovere il piedino a tempo. Si torna al rap più tradizionale con High road, ma è solo un gradito momento prima del colpo di teatro per eccellenza di questo album, quella incredibilmente autobiografica canzone che porta il nome di Kenji, il racconto dei trascorsi della famiglia giapponese di Mike, accusata di spionaggio dagli USA durante la seconda guerra mondiale. Kenji è di certo il pezzo più emotivo e sentito del disco, una canzone che Mike avrà progettato alla perfezione, producendo oltre cinque minuti di puro storytelling alla Outkast, mischiato, in momenti strategici, con le struggenti voci dei suoi familiari. Dopo una cosa del genere, l’album potrebbe tranquillamente chiudere in bellezza, ma uno Shinoda particolarmente ispirato ci regala ancora Red to black, più vicina al rap rock che al resto del disco, The battle, suggestiva registrazione di una rap battle in un locale di Los Angeles, ed un altro pezzo non poco struggente, dai tratti ambient (vede la partecipazione di Joe Hahn), quella ottima closing track che porta il nome di Slip out the back.
Cosa rimane di Mike Shinoda dopo questo The rising tied? Sarebbe più corretto chiedersi dove finisca quello di prima. Dal suo progetto laterale, Mike esce completamente rinnovato, nella voglia di fare musica, nella voglia di scrivere testi, nella voglia di lavorare. Non è un caso, quindi, che recentemente abbia dichiarato che dubita tornerà mai a lavorare per Fort Minor: esperienze di questo tipo si fanno una volta sola, e sono formative a sufficienza per una vita. A noi non resta che godere del Mike di questi anni, senza dubbio un artista a tutto tondo, e del suo presumibilmente unico album sotto il nome Fort Minor, uno one shot kill al mercato della musica alternativa.