C’erano una volta i Linkin Park. Nella terra, ahinoi o per fortuna lontanissima della California, oramai più di dieci anni fa, sei ragazzi poco più che ventenni, al tempo ancora affetti da acne giovanile, con la loro valigia piena di sogni ed ottimi propositi, decisero che era giunto il momento di portare un autentico uragano di novità nel già variegato panorama musicale d’oltreoceano, al secolo pullulante di realtà già di successo, che fondavano tutte la loro proposta musicale nel concetto di “crossover”: prendi l’ingrediente A, l’ingrediente B, e l’ingrediente C, tali che A, B, C non abbiano nulla a che fare fra loro, e fondili assieme in un unico disco, tale da poter portare alla ribalta il tuo nome.
Ogni band aveva la facoltà di scegliere, anche senza alcuna ratio, quali ingredienti miscelare fra loro: più esplosivo sarebbe stato il risultato, più rapidamente la classifica di Billboard sarebbe stata scalata, senza intoppi.
La vera e propria “politica” musicale del periodo, nell’ambito in cui i Linkin Park si inserirono, era esattamente questa. Un modo quasi “avveniristico” di scrivere musica, che vide nella formula del “Nu-Metal” la soluzione più adottata dai gruppi che, all’alba del 2000 e poco più avanti, videro i loro dischi venduti a milioni su milioni di copie. Una rivoluzione, certo, senza dubbio rilevante nell’enorme calderone del rock statunitense, che in quegli anni era scosso dal tremolante futuro dei grandi nomi del passato, dai Metallica ai Faith No More. Un fatto che portò al successo decine di gruppi, ognuno degno di nota e con una sua anima caratterizzante.
Nel 2010, di quella rivoluzione, non c’è quasi più traccia, e la motivazione sta essenzialmente nel fatto che quel mondo, quello del Nu-Metal, pur portando innovazione, non fu capace di innovare se stesso, di cambiare pelle, di evolversi. E i “capostipiti” del genere, si trovarono di fronte ad una necessità: strapparsi le vesti di dosso e giocarsi il tutto per tutto cambiando radicalmente direzione, strizzando anche l’occhio a tendenze più easy, più radiofoniche, come se quella “corrente” che tanti artisti aveva sfamato in quegli anni, non fosse stata sufficientemente sfruttata e pubblicizzata dai media musicali di allora, e non è necessario fare esempi. Chi ha intrapreso questa via, oggi è ancora dopo dieci anni (ed, è il caso di dirlo, chissà per quanto ancora) lì a scaldare le platee, e fra questi, troviamo proprio i Linkin Park.
Per capire il perché di un disco come A Thousand Suns, significato del concept a parte, bisogna materialmente effettuare questa digressione, altrimenti non si spiega il perché un gruppo così amato, radicato, diffuso e supportato in quasi tutto il mondo, giochi da quasi 4 o 5 anni “al gatto e al topo” col mondo dei propri “seguaci”, spaccati a metà fra coloro che “non vogliono sentire” le ragioni di una band che all’infinito ripete ossessivamente di non essere più (e non, sia chiaro, di non essere MAI stati) quella degli amati esordi, e fra quelli che invece comprendono, giustificano e supportano questa scelta, riservandosi poi il giudizio sul risultato raggiunto. Quale spirito più costruttivo e buono di questo può essere usato per giudicare l’operato dei Linkin Park da 5 anni a questa parte? Nessuno.
Venendo al disco, che è tutt’altro che un mero affare di cronaca in questa recensione, A Thousand Suns non può e non deve essere considerato solo come la chiusura del cerchio del lavoro cominciato, non con risultati eccellenti per altro, in Minutes To Midnight. Di fatto questo disco presenta al suo interno, riveduti e corretti, tutti i principali elementi, privati dei loro difetti e delle principali mancanze, che avevano caratterizzato quel tanto odiato/amato disco della svolta. Elementi, e per certi versi anche temi, espressi qui in maniera più completa, esplicita ed esauriente, dove i timidi esperimenti compositivi poco riusciti ascoltati in Minutes To Midnight sono qui invece parte costituente dei migliori episodi del disco. Un netto passo in avanti quindi, e verrebbe da dire che questo lavoro si presenti esattamente come sarebbe dovuto essere il disco precedente. Tutti sanno però che per le cose buone bisogna saper aspettare, e l’attesa in questo caso, non può che dirsi ripagata.
Tecnicamente parlando, siamo di fronte ad un’opera davvero finemente realizzata, con un altissima dose di sperimentazione giunta qui finalmente a vero compimento: un disco di sostanza, di cuore, di grandi tematiche, e proprio quest’ultimo punto meriterebbe una certa riflessione, che prenda per un momento le distanze da quella che è la musica a sé stante. Colpisce il lavoro svolto nel concentrare ogni aspetto del disco, specialmente dal punto di vista lirico ma non solo, sul tema della crisi globale della società moderna, prima assuefatta dagli strumenti, di media e di distruzione di massa, che essa stessa ha creato, poi improvvisamente risvegliata dal coma dogmatico auto-impostosi, quando l’essere umano, colto da un momento di lucidità, apre la finestra e osserva il mondo sull’orlo del baratro, per una ragione che non viene completamente specificata, nonostante l’allusione alle armi nucleari ed al loro “peso” politico internazionale sia chiaro e palese. Ma per trascendere da questa realtà, quella dipinta nel disco, il gruppo introduce, ad hoc in momenti decisivi, trafiletti di discorsi di reali personaggi, attivisti di vario genere, che fungono quasi da monito all’ascoltatore: se l’umanità in ginocchio velatamente allusa nel tema centrale del disco è frutto comunque dell’immaginazione, la realtà contemporanea è costellata di messaggi che possono e devono allarmarci. Una funzione quasi didattica ed educativa che non può essere certo trascurata.
Passando alla musica, colpisce e non poco l’ “omogeneità” della produzione: il disco è arricchito da diversi intermezzi strumentali che hanno la fondamentale funzione di fare da filo conduttore fra le mille sfaccettature dell’opera. Si faccia riferimento, ad esempio, alle battute iniziali: l’inquietante introduzione di The Requiem, cupa, tetra, quasi avvilente, illuminata solo dalla fioca voce femminile presente, si fonde perfettamente col successivo intermezzo, The Radiance, la cui funzione è essenzialmente quella di trainare l’ascoltatore, senza “sbalzi emotivi”, dentro la prima vera traccia del disco: Burning In The Skies. Le luci si accendono assieme al tiro delle drum machine, che contribuiscono al crescendo di emozioni ed intensità, sostenendo con la giusta dose di ritmo la coppia Bennington-Shinoda, che già qui si rende protagonista di un’ottima prova. Il giro di piano, le dolcissime note di Brad e il classico “wall of sounds” elettronico, fanno da sfondo essenziale a quest’ottimo inizio.
Con la successiva When They Come For Me, introdotta peraltro ottimamente dal fuoco di sbarramento e dalle urla di proteste non meglio specificate di Empty Spaces, iniziano le prime vere sorprese. Una base dal tiro micidiale, robotico, elettrizzante, irrompe nella strana quiete d’inizio brano con violenza ed invadenza, i bpm s’innalzano imperiosi mentre un grande Shinoda rispolvera con rinnovata determinazione il taccuino delle rime. Chester è anche qui tutt’altro che comprimario: i suoi cori sofferti nel chorus, trasmettono un sinistro senso di abbandono, di inevitabilità, vocalizzi colmi di tristezza che si fanno ancor più intensi nel bridge sul finale, dove quando sembra quasi tutto finito, le chitarre campionate di Brad deflagrano nelle orecchie dell’ascoltatore, sostenute da una sezione ritmica da oscar, arricchita da tribalismi arabeggianti. Una delle perle del disco senza ombra di dubbio.
Con la successiva Robot Boy si ritorna decisamente su lidi più calmi, il suono si depura dalle ruvidità della traccia precedente, cosìccome il ritmo risulta decisamente snellito. Le note di piano iniziali sono l’introduzione a questa splendida ballata dove un Bennington accorato prende in mano le redini del gruppo. Un’altra traccia strumentale, Jornada del Muerto, ci porta all’ascolto di uno dei brani più innovativi del disco: Waiting For The End è il brano dove meglio si amalgamano le due metà vocali della band. Un raggaeggiante Shinoda introduce e sostiene il suo “comprimario” che qui tocca vertici di emozionalità forse mai toccati prima d’ora, specialmente nelle strofe. Anche qui, una base di matrice quasi hip-hop, viene poi ribaltata da una più pulita sezione di batteria. Emozione, intensità, qualità. Altro gran pezzo e sicuramente futuro singolo.
Ancora un Bennington protagonista nella successiva Blackout, dove a sovrastare i pad anni ’90 e il gelido beat di sottofondo, ci pensa la sua voce: limpida e cristallina nelle strofe quanto abrasiva e colma di agonia nelle sezioni urlate. Decisamente uno dei brani più particolari dell’intera carriera dei Linkin Park, arricchito peraltro da un finale a due facce: al cardiopalma la prima parte, dove gli stessi gutturali vocalizzi vengono violentati dalle sapienti mani sul deck di Joe Hahn, mentre decisamente più posata la seconda. Nella successiva Wretches And Kings, si riprendono i concetti visti When They Come For Me con un Shinoda decisamente impegnato. Merita menzione la base di quest’altra perla: un’alchimia di drum kit semplicemente perfetta, in grado di entrare lentamente ma inesorabilmente nella mente dell’ascoltatore. Nella ballata Iridescent, il gruppo nella sua interezza arriva a compiere una delle canzoni più complete della loro carriera. Anche qui, Bennington e Shinoda si avvicendano alla perfezione, raggiungendo entrambi l’obiettivo di entusiasmare e colpire dritto nel cuore nelle strofe che portano allo splendido finale in build-up, arricchito da degli azzeccati cori di sottofondo. Solo nel finale del disco giunge il singolo di lancio del gruppo, The Catalyst, dove uno scatenato Joe Hahn introduce, senza perdersi nel resto del brano, le iterate strofe del pezzo, in una scala d’intensità anche qui ottimamente realizzata. Forse il brano più Holliwoodiano del disco, dove maggiormente vengono richiamati alla mente gli scenari di distruzione e devastazione per il momento solo lasciati, seppur chiaramente, intendere.
La vera chiusura di questa opera è affidata a The Messenger, ed anche qui i Linkin Park ci riservano delle sorprese: un lento di chitarra acustica e un inedito e cantautoriale Chester mettono la parola fine a questa splendida esperienza.
C’è veramente poco altro da aggiungere. Un disco completo, ottimamente realizzato, che misura con accuratezza l’alternanza delle dosi di aggressività e quelle di, seppur relativa, calma. Un disco che può accontentare tutti come nessuno, ma che comunque, non potrà lasciare indifferenti.