Finalmente dopo mesi di attesa e lo streaming di lunedì, oggi The Hunting Party viene ufficialmente pubblicato in Germania, Svizzera e Austria. Ecco la nostra recensione definitiva del nuovo album dei Linkin Park:
Voglio che vi alziate proprio adesso, che andiate alla finestra e l’apriate e vi affacciate tutti ed urliate: “Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!”
Queste parole uscite direttamente dalla bocca di Howard Beale nel mitico film Quinto Potere di Sidney Lumet sono l’incitamento più feroce e senza compromessi alla distruzione dello status quo e dell’uscita dall’apatia mediocre dell’individuo medio. “Incazzatevi!” è la parola d’ordine, la rabbia è l’unica cosa che possa far cambiare le cose, l’unica che possa mettere sottosopra un ordine prestabilito di cui nessuno è contento ma di cui tutti fanno parte.
Non ci sarebbe nulla da stupirsi se i Linkin Park avessero avuto questa citazione stampata e attaccata ad ogni muro del loro studio e in riproduzione continua sul loro impianto sonoro durante la fase di composizione di The Hunting Party. “Incazzatevi!”. Invero, con il loro ultimo album i sei californiani fanno esattamente questo, prendono alla lettera ogni singola parola di Howard Beale e la adattano al loro mondo. L’ essenza di The Hunting Party sembra un enorme dito medio indirizzato in ogni verso; verso la società, verso l’industria musicale, verso la radio, verso coloro che hanno dato loro delle fighette o dei venduti.
In molti sensi questo era il disco della verità per i Linkin Park. Dopo un album maiuscolo come A Thousand Suns e uno abbastanza banalotto come Living Things seguito dall’infausto progetto Recharged era l’album seguente a dover mostrare al mondo quale strada avessero intenzione di seguire e se Recharged fosse stato solo un incidente di percorso atto ad ampliare la fan base e la carenza di idee di Living Things solo un problema momentaneo. A questo punto fece capolino la schizofrenica fantasia di Mike Shinoda che entrò in studio, fece sedere davanti a sè gli altri cinque membri della band e recitò a memoria il monologo di cui sopra.
Il risultato è l’album più inaspettato che una band mainstream abbia pubblicato negli ultimi anni. In un paesaggio musicale mainstream in cui le chitarre distorte sono una realtà estranea e l’elettronica prende sempre più piede, i Linkin Park decidono di dare alla luce un album in cui le influenze principali sono da ricercarsi nel punk, nel heavy metal, nell’alternative metal e nel hard rock; il tutto rimescolato in una salsa tutta personale. Al primissimo sguardo sulla tracklist queste influenze sono subito evidenziate dalle featuring: Rakim, Page Hamilton, Daron Malakian e Tom Morello. Un quartetto alla cui lettura molti avranno percepito un fremito nella forza. Un nome più grosso dell’altro per ogni appassionato di musica crossover fra gli anni ’90 e i primi anni del nuovo millennio e, come ciliegina sulla torta, uno dei rapper più influenti della storia del genere. Uno più incazzato dell’altro (soprattutto Tom Morello quando si è reso conto che avevano registrato Drawbar mentre lui era andato in bagno).
The Hunting Party è tutto quanto ci si potesse aspettare da qualcuno che ha deciso di tirare un pugno in faccia all’industria musicale contemporanea: suoni aggressivi, composizioni più elaborate del semplice avvicendamento di strofa e ritornello, sonorità che richiamano a generi musicali che oggigiorno non vanno più di moda. La cosa più lieta da apprendere è che questo pugno in faccia è violento, potente ed incredibilmente ben riuscito. Dai primi vocalizzi distorti di Keys to the Kingdom fino alle oscure atmosfere conclusive di A Line in the Sand l’ascoltatore viene trasportato attraverso lande lugubri dove la chitarra di Brad Delson funge da guida e la batteria di Rob Bourdon da motore. Proprio il primo, tanto malmenato da fan e non a causa della sua mancanza di qualsivoglia profondità compositiva durante tutti gli album della band fino ad ora, in The Hunting Party porta la sue sei corde al ruolo di protagoniste dell’intero album; anzichè limitarsi a semplici power chord e qualche arpeggio basilare, Brad assale lo spettatore con assoli e riff a cui i Linkin Park non avevano neanche lontanamente abituato il loro pubblico. Così in War si presenta un assolo che potrebbe essere uscito dall’amplificatore di Kirk Hammett mentre in Guilty All the Same i riff ricordano molto da vicino certo hard rock anni ’80. I primissimi secondi di All for Nothing potrebbero quasi essere un riff black metal!
Delson non è l’unico però la cui prova su The Hunting Party sia notevole, ogni singolo membro del gruppo collabora egregiamente alla buona riuscita dell’album, in primis Rob Bourdon che si dimostra uno dei migliori batteristi in circolazione nel panorama rock. Anche Mr. Hahn svolge un eccellente ruolo in sottofondo nonostante campionamenti e scratch siano elementi lontanissimi dalla vena di rock “puro” che caratterizza lunghi tratti di questo lavoro. Per la gioia di tutti coloro che le richiamavano a gran voce, le urla di Chester Bennington sono tornate in primissimo piano dentro all’equilibrio delle composizioni e altrettanto lo sono le rime di Mike mai ispirate e trascinanti come su questo album.
Così viene dato vita ad un plotto di dodici canzoni in cui nulla stona. Anche canzoni che ad un ascolto separato sembrano più deboli e non degne di particolare attenzione come Until It’s Gone all’interno di un discorso più ampio acquisiscono un loro senso. Ad inframezzare i toni progressivi e veloci di Guilty All the Same e i ritmi mozzafiato intessuti dalla chitarra dell’ex System of a Down Daron Malakian in Rebellion, una canzone spiccatamente pop-rock non sfigura. Se poi una canzone efficace pur nella sua totale mancanza di fantasia durante il ritornello quale è Wastelands si rivela essere una delle canzoni più deboli dell’intero disco, ci si rende definitivamente conto di trovarsi di fronte ad un album di livello veramente alto. Non importa se attraverso le sperimentazioni di Mark the Graves, le aggressioni sonore di Keys to the Kingdom oppure la potenza della ballad Final Masquerade, il sentiero conduce inevitabilmente alla conclusione di trovarsi di fronte al miglior album che i nostri abbiano fino ad ora pubblicato.
Se all’undicesima traccia qualcuno non se ne fosse ancora definitivamente convinto, i Linkin Park trattengono il piatto forte proprio fino all’ultima canzone. A Line in the Sand è una canzone completa sotto ogni aspetto, composta da malinconiche ma decise strofe affidate ad un cantato quasi recitato di Mike e da adrenaliniche accelerazioni in cui il riff di chitarra e il basso di Phoenix danno vita ad un comparto strumentale che non può lasciare indifferenti. È sicuramente noioso e ripetitivo continuare imperterriti a lodare il lavoro dietro alle pelli di Rob, ma cosa altro resta da fare di fronte a prestazioni di questo livello? Un’altra lode va fatta anche a lui.
L’unica vera “delusione” (ma è una sciochezzuola) è la collaborazione con Tom Morello. Se le strofe di Rakim davano completezza ad una canzone già di per sè efficacissima, il cantato di Page Hamilton rimarcava la potenza di All For Nothing e Daron Malakian donava una verve ispiratissima a Rebellion, la chitarra di Morello è pressochè assente nella bellissima strumentale Drawbar. C’è da chiedersi se fosse una collaborazione davvero necessaria se il risultato è stato questo arpeggio semplicissimo.
Notabili sono anche i testi, espliciti e accusatori come non mai. Mai avevamo visto il booklet di un album dei Linkin Park contenere così tanti attacchi verso il mondo che ci circonda, colpevole di apatia morale, ipocrisia, indifferenza e corruzione. I Linkin Park si sono guardati intorno, hanno visto un panorama musicale mainstream senza coraggio, una società malata e insulti (forse anche in parte meritati) verso di loro. Dopo una tale visione non potevano fare altro che alzare la testa, dirigersi verso la finestra, aprirla, affacciarsi e urlare:
“Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!”
…e tutti noi non possiamo che essere grati per la loro incazzatura, dopotutto ci ha fornito il capolavoro dei Linkin Park.
Recensione di Eru Illuvatar
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