Oggi è il 22 ottobre 2010. I Linkin Park sono in tour in Germania, pronti ad infiammare un altro palazzetto. È un momento cruciale, un mese fa hanno pubblicato l’album più controverso della loro carriera e la loro fanbase si è spaccata a metà: c’è chi desidera un improbabile ritorno alle origini e chi rimane ammaliato dal nuovo sound. Ma a Mike Shinoda e soci tutto questo non importa: come hanno già detto più volte A Thousand Suns è la perfetta rappresentazione della musica che i Linkin Park vogliono fare, in barba alla critiche e ai giudizi. D’altronde come biasimarli, un fan può apprezzare o meno la musica scritta da una band, ma sono gli artisti a dover decidere quale direzione prendere. Se così non fosse una band ben navigata si potrebbe trasformare in breve tempo in una zattera che, in mezzo all’oceano in tempesta, viene sospinta dai venti nelle direzioni che qualcun altro ritiene più opportune. Ma non c’è il rischio che tutto ciò accada. Oggi è il 22 ottobre 2010, due giorni fa i Linkin Park hanno offerto un grande show e stasera torneranno sul palco con la stessa energia. Perché solo scrivendo e suonando la musica che veramente ti piace fare puoi offrire spettacoli (e canzoni) degni del nome che porti.
Oggi è il 22 ottobre 2013 e in tre anni tutti i nostri peggiori incubi si sono avverati. In tre anni i Linkin Park sono riusciti a passare dal momento più artistico della loro carriera al peggiore, passando attraverso i comportamenti più ipocriti e ridicoli. La pubblicazione di Living Things è stato forse il primo campanello d’allarme: un buon disco, niente da dire, ma forse un po’ troppo volto ad accontentare sia i delusi che i fan del nuovo sound. Canzoni semplici e immediate, qualche richiamo alle vecchie glorie della band e un po’ di elettronica a fare da contorno, in modo da fare contenti tutti. In ogni caso, un passo indietro sia dal punto di vista musicale che da quello della credibilità. Ma questo è niente in confronto a quello che accade un anno dopo, quando, tra l’incredulità generale, Mike Shinoda annuncia che i Linkin Park hanno composto una canzone con Steve Aoki, che verrà lanciata assieme al nuovo videogioco realizzato dalla band, LP Recharge. A questo punto la domanda che si fa strada nella mente dei più è lecita: per quale motivo (tralasciando un attimo il beneamato Dio Denaro) una band come i Linkin Park dovrebbe imbarcarsi in un progetto del genere? Meglio mantenere quel poco di credibilità che rimane e concentrarsi sui lavori futuri o guadagnare altri fan provenienti da altri contesti musicali? Ed è qui che si torna alla questione iniziale, alla differenza tra una band di artisti che naviga sicura verso un determinato lido musicale e una zattera sospinta dove capita da inutili e futili questioni di marketing e successo. Per carità, siamo tutti d’accordo sul fatto che quello sia il loro lavoro e che ci debba essere un profitto, ma c’è modo e modo di restare sulla cresta dell’onda e il prendere in giro il pubblico non è il migliore.
È proprio Mike Shinoda quello che illude i fan scrivendo un articolo pieno di bellissime parole sul declino della musica rock ai giorni nostri, affermando che c’è bisogno di musicisti capaci di prendersi rischi e di innovare il panorama con un nuovo tipo di rock pieno di ferocia, esplosività, audacia e sentimento. Tutto vero, tutto bellissimo, se non che due giorni dopo esce la notizia più sconvolgente di tutte: a fine ottobre i Linkin Park pubblicheranno Recharged, un disco contenente vari remix dell’ultima fatica dei californiani. Tralasciando un attimo il giudizio vero e proprio sull’album e sulle singole canzoni (di cui solo una manciata realizzate dai nostri), ci troviamo davanti alla classica goccia che fa traboccare il vaso e questa volta oltre alle domande, nella mente dei più iniziano a formarsi anche le probabili risposte: che i Linkin Park si siano stancati di prendersi rischi? Che abbiano deciso di sedersi comodi in poltrona e campare di rendita? Anche questa volta le domande sono più che lecite e le parole piene di speranza di Mike suonano come una beffa. Cosa c’è di audace e innovativo in un disco di remix pieno fino alla nausea di elementi che possano far presa su un’altra ampia fetta di pubblico? C’era davvero bisogno di fare la figura dell’ipocrita e arrivare alla fine del 2013 con la credibilità sotto lo zero e un futuro più che incerto?
Arrivando dunque a Recharged e al suo contenuto, è bene tenere a mente una cosa. Non si tratta di un lavoro dei Linkin Park (con l’eccezione di A Light That Never Comes), ma di un’operazione commerciale del sestetto. Il nome in copertina è però il loro, e questo significa assumersi ogni responsabilità sul prodotto, sotto ogni punto di vista, primo fra tutti quello della credibilità. Un’altra delle cose sconcertanti di questo disco è che metà dei remix erano stati già disponibili nel 2012 a tutti coloro che pre-ordinarono Living Things dal sito ufficiale della band. Perché tutto ciò? Perché non spingersi a creare altri remix o reinterpretazioni delle tracce dell’album, come accadde nell’ottimo Reanimation? La (ormai) famosa A Light That Never Comes si presenta come la classica canzone scritta in dieci minuti e costruita apposta per piacere all’ascoltatore meno esigente: su una base prodotta da Steve Aoki, i due frontman si alternano in un pezzo di facile presa che con molta probabilità sarà presto dimenticato da tutti. Discutibile anche la costruzione del brano, decisamente non impeccabile. Il pezzo fornisce importanti indizi sul resto dell’album, infarcito di elementi house, dubstep o addirittura hardcore, come nella versione di Victimized realizzata da Shinoda, l’unico membro dei Linkin Park ad aver fornito il proprio apporto al disco. Un Mike Shinoda che con il remix di Castle of Glass rischia seriamente di produrre qualcosa di interessante, miscelando insieme varie trovate interessanti, purtroppo in maniera non del tutto funzionale. L’accelerazione impressa alla linea vocale priva inoltre il pezzo del phatos che ha reso memorabile la sua versione originale. Il remix di Lost in the Echo trasforma la canzone in un discreto brano dubstep, fortemente ispirato (quasi spudoratamente, a dire il vero) alle sonorità di Skrillex. Il primo remix di I’ll Be Gone risulta tutto sommato buono, anche grazie ad inedite parti rap (una delle quali di Shinoda), mentre il pezzo artisticamente più notevole è senza dubbio il remix di Until It Breaks ad opera di Money Mark, con numerose ed interessanti variazioni sulla base, talvolta dal sapore decisamente rock.
Le buone notizie, tuttavia, finiscono qui: il resto del disco è composto da qualche brano insapore e veri e propri aborti musicali, negli episodi in cui gli elementi elettronici soffocano la canzone originale, riprendendone in sostanza unicamente i giri di accordi (come nel caso di Powerless). I Linkin Park non sono certo rinomati per la complessità delle loro armonie, ed ecco che ci troviamo di fronte a brani quasi completamente privati della loro identità. Intendiamoci, il problema non è la presenza di elementi elettronici, house o dubstep che siano, in quanto tali. Il problema è l’utilizzo che si fa di essi. Buono in un paio di casi, accettabile in altri, ma nel complesso inadeguato, se non addirittura imbarazzante. Recharged risulta dunque essere una raccolta di remix di dubbio gusto, concepita per un target diverso dalla fanbase abituale dei Linkin Park, ma che rischia di scontentare entrambe le categorie di ascoltatori, con l’eccezione di chi giudica un disco in base al nome in copertina e non al contenuto.
Alla fine del 2013, dopo 15 anni di carriera quello che rimane dei Linkin Park è la certezza e la speranza. La certezza che un album pieno di esplosività, audacia e sentimento sia assolutamente nelle corde del sestetto e la speranza che dopo questo periodo di appannamento la band torni a produrre dischi di questo tipo.
Come dicevano gli stessi Linkin Park esattamente 13 anni fa: “It’s time to sink or swim.”
Questi sono i nostri pensieri e le nostre conclusioni, i vostri invece quali sono?